Ci svegliamo con la luce del mattino che entra dalla finestra
sena tende. Siamo stati a letto 12 ore! (esclusa la piccola parentesi hot
spring)
Yake e G. non sembrano ancora molto reattivi. Al suono della
sveglia si rintanano sotto le coperte come bambini: “ancora 5 minuti!”.
Colazione, passeggiata fino alla fontana per darsi una
risciacquata, e andiamo a visitare il piccolo monastero delle monache.
Anche qui stanza dopo stanza, ci immaginiamo le possibili
abilità di ogni protettore e la difficoltà o i privilegi associati ad ognuna
delle 5 sette buddiste. Si si, sarà proprio un bel gioco.
Mentre i nostri bodyguards ci registrano alla stazione di
polizia, vagabondiamo un po’ per il villaggio e scambio due chiacchiere con un
gruppetto di uomini intenti a guardare i lavori in corso (tutto il mondo è
paese). Esaltati dalle mie poche parole di cinese, cercano di esprimersi in una
lingua più comprensibile possibile, ma non gli riesce molto bene.
Recuperiamo le nostre cose pronti a ripartire. Il mio
acclimatamento non è ancora tale da farmi fare la salitaccia del villaggio con
i 13kg del mio zaino in spalla e così mi aiuta G. Ciononostante sono costretta
a fare numerose pause durante il tragitto. Poco male: il panorama offre
numerosi scatti!
Ci rimettiamo in moto verso la “civiltà” e dopo non molto
arriviamo in un villaggetto lungo la strada. Ci fermiamo per chiedere a un uomo
se è possibile entrare in casa sua. Previo compenso, accetta.
Anche qui quello che impariamo non è poco. Attraversata la
bellissima porta d’ingresso, lo scenario cambia: stupenda facciata, interno
poverissimo. Scopriamo che il governo cinese fornisce dei fondi a ogni famiglia
per rendere bella la facciata della casa che da sulla strada: in questo modo al
viaggiatore di passaggio, arriva l’immagine di un bel villaggetto di campagna,
carino e ordinato. Ma i fondi bastano, per l’appunto, solo per la facciata. L’interno
è a carico del proprietario. E questo rispecchia le reali condizioni di vita.
Come in molte situazioni di campagna, il cortile è murato per potervi
contenere gli animali. Yak e maiali girano per il cortile. Cacche di yak sono
spiattellate sul muro a seccare, per poi essere usate per il accendere il fuoco
della stufa. Ogni cosa ha la sua utilità. Un bambino (probabilmente il più
sporco che abbia mai visto) ci osserva diffidente, segna accennare a un sorriso
e spesso e volentieri nascondendosi dietro le gambe del papà. La moglie è in
ospedale: sta per avere un bambino.
Entriamo nell’unica stanza della casa: divani attorno alla
stufa, che la sera verranno trasformati in letto. Al muro una foto di Mao. È obbligatoria
nelle case tibetane, così come la bandiera cinese sul tetto. In realtà nell’abitazione
c’è un’altra stanza, accuratamente nascosta: la stanza per la preghiera, un
piccolo tempio privato, costellato di foto del Dalai Lama. Solo la nostra
occidentalità ci permette di accedervi. Se la polizia lo venisse a sapere,
sarebbero guai per il povero contadino.
Ripartiamo, pronti per un’altra tappa: gli yak! Fermiamo l’auto
vicino a u gruppetto di animali sonnacchiosi: G. e Yak vogliono farceli vedere
da vicino.
Avanziamo con una certa cautela: non vogliamo far innervosire i
bestioni. Anche le nostre guide camminano lentamente… molto lentamente… per poi
cominciare a correre urlando e lanciarci letteralmente contro il branco
spaventato! MALEDETTI! Fate bene a ridervela da lontano… aspettate di capitarci
a tiro!!!
Tempestiamo di foto questi animali stupendi adornati da trecce
e nastri rossi e poi riprendiamo il nostro cammino – costellato di buche – per Lhasa.
Un paio d’ore e di controlli militari più tardi arriviamo in
hotel. Proponiamo a G. e Yak di bere qualcosa insieme la sera, per salutarci,
ma la moglia di Yak è categorica: “a casa!”. Società matriarcale, dicevano…
Facciamo l’ultima passeggiata, compriamo gli ultimi souvenir,
mangiamo l’ultimo piatto a base di carne di yak e ce ne andiamo a dormire.
Buonanotte Tibet. Mi mancherai.
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